PREFAZIONE Io non so se un giorno la Poesia dialettale di Napoli avrà di nuovo la dignità di una critica ufficiale, come pure, per il passato è qualche volta avvenuto, ma so per certo che, se ciò avverrà, questi critici non potranno non fare i conti con la Poesia di Ciro De Novellis. E dico subito che saranno conti complessi, difficili da far tornare senza uno studio approfondito, senza una conoscenza intima della matrice poetica di questo autore. Una delle prime sensazioni che suscita la lettura di questo libro, ma direi, in generale la conoscenza in toto del percorso poetico di De Novellis è la tensione ascendente, induttiva, verso un’origine, un “arké”, una nascita che fu in principio e da cui tutto muove. Io ho pensato spesso a questa esigenza di ricerca, a questo istinto alla progenitura, collegandola addirittura a quella che animò i padri della filosofia classica, i cosiddetti Presocratici; come Talete, Anassimene, Anassimandro, cercarono un “primum movens” scaturigine assoluta di ogni manifestazione del reale, spiegazione e, insieme ragione dell’esistente, così il Nostro è alla continua ricerca di un evento originario, decisivo, per lui, per la sua terra, per la sua poesia: un parto. E De Novellis non trascura nessun mezzo d’indagine per risalire a questa maternità: in lui c’è l’antropologo, dilettante, ma acuto e appassionato, che ha dato prova di se in un suggestivo volume sulla festa dell’ “Archetiello” di Miano alla ricerca della “via dei canapi”, il sociologo attento, mai condizionato da pregiudizi politici che osserva il “suo” popolo con acume e rigore, senza mai rinunciare, però, ad una lente particolare, attraverso la quale passano complicità, identificazione, condivisione dei destini, in una parola, senza mai rinunciare ad una più che umana “pietas”; c’è lo psicologo che non esita a scavarsi dentro, ad entrare nella propria sofferenza, nei propri sogni, spesso nei propri incubi, con coraggio, con dolore, pur di risalire alle origini, a quel parto. Ma i suoi mezzi d’indagine, la sua tensione di ricerca, non si fermano qui, lui, per nostra fortuna non è un filosofo, non deve sacrificare niente della sua fantasia, dei suoi aneliti a pretesi rigori scientifici, lui è un poeta e, come tale riesce a varcare le arcane soglie della Magia e del Sogno. Anche qui, però, mi corre l’obbligo di un distinguo importante, del resto l’avevo pur detto che l’analisi della poetica di De Novellis è complessa e articolata. La magia non è, per lui, un deus ex machina pronto a dare comode risposte ai travagli del suo pensiero, alle inquietudini dei suoi dubbi, alle sue domande ancestrali, è bensì un costituente stesso della materia, della matrice originaria che lui studia e ricerca. Per Ciro De Novellis non è data Verità senza Magia, non è data Storia senza Mito, non è data, per esempio, Napoli senza Virgilio. E non, si badi, un solo Virgilio, ma tutti i Virgilio possibili; quello misterico, esoterico, il Mago per eccellenza, quello medioevale della leggenda di Castel dell’Ovo insieme al Virgilio bucolico e contadino delle Egloghe e delle Georgiche perché nel Poeta che stiamo trattando, il legame con la terra, intesa come fattrice, madre gravida di frutti e di umori, materia, pronta a plasmarsi in forma e a disfarsi in polvere ed acqua è sempre presente, lui è carne e sangue dalla terra nati e, a sua volta generatore di carne e sangue, di altre forme, di altra vita, in un ciclo continuo e inestinguibile in cui la terra è femmina, madre, sposa, figlia, sorella; ed ecco che la sua ricerca sulla strada di quel famoso “parto” in cui intravede l’origine di tutto, si fa di mille parti, di mille nascite ed origini, l’una evoca l’altra, tutte insieme rimandano attraverso indizi, sensazioni,”dejavu”, nella Poesia di Ciro, lungo un percorso sofferto, direi quasi di doglia in doglia, alla ricerca dell’origine prima ed inesauribile. E quest’ansia, questa tensione, attraversano in lungo e largo le poesie di questa raccolta, ora come momento evocativo puro e semplice, affidato al ricordo, ora come disperata invocazione affidata all’angoscia di un risveglio notturno, quando in una lingua indefinita, il poeta cerca di dare corpo alle ombre, di materializzare visioni notturne nel volto ineffabile e sfuggente di una madre eterna e immanente che tutti chiama, tutti aspetta, fase terminale di un ciclo eterno e rinnovabile, morte che in un altro “dove”, in un altro “quando” si rifarà vita. La Poesia, quando è tale, riesce ad essere elemento costitutivo e fondante di una Cultura, perché in essa, oltre la fantasia artistica convivono la storia, il mito, il sentimento religioso ed il pensiero filosofico: ecco quindi una chiave di lettura di questo libro, se cerchiamo questi elementi li troveremo tutti ed è in quest’ottica che l’opera suscita e merita riflessione, attenzione critica, capacità di analisi, ma consente anche il dolce abbandono che è in grado di dare la poesia… Il verso di Ciro De Novellis è armonioso, pregnante, le sue atmosfere, ora dolci, ora inquiete, sono sempre suggestive, le sue riflessioni sul sociale sono puntuali, amare mai scontate; basta, per esempio un suo “silenzio” per fare giustizia, in una bellissima lirica, di tante promesse mancate, di tutte le speranze deluse di un popolo che spesso ha camminato nella storia, senza avere una direzione, una ragione. Dalle riflessioni fin qui fatte può forse essere più agevole interpretare quella che l’autore definisce come “anima flegrea”. Pozzuoli, Cuma, il Fusaro, l’Averno, piuttosto che Napoli, prima di Napoli, indipendentemente da ciò che dicono i manuali di Storia. I Campi Flegrei sono terra di fuoco e di mare, viscere ribollenti di umori, calori, sapori, ventre perennemente gravido di genio, fantasia, umanità. Eccolo Virgilio, ecco il punto d’incontro, crocevia tra Mito e Storia che affida a nobili vestigia, ad affascinanti panorami, a languidi tramonti, alla voce placida e serena del mare, un racconto che ha affascinato, stregato Ciro De Novellis, che l’ha indotto a narrarlo, rievocarlo, riviverlo, regalarlo ai suoi lettori come dono di arte e di fede. Alcune delle liriche più intense di questo volume ci parlano del legame del poeta per questi luoghi, ci fanno capire la sua aspirazione ad un diritto di progenie. Lo stile di queste composizioni, sobrio, austero, classico, ci da conto del rapporto di venerazione che De Novellis ha verso i luoghi, certo, ma soprattutto verso la Storia che raccontano, il Mito che perpetuano, la Magia che incarnano; di fronte a tanta estasi Ciro deve ricorrere alla lingua, anzi alla lingua migliore, quella pregnante e ricca dei grandi poeti del passato, qualcuno dirà che il suo stile si fa qui classicheggiante; non importa, quello che conta è che non sia retorico, e non lo è mai perché è vero amore quello che sente, quello che ci trasmette. Ma veniamo invece al dialetto di Ciro De Novellis. Un’attenta lettura delle sue composizioni ci rivelerà un altro aspetto originale e, direi coerente con i temi trattati; c’è infatti anche nella scelta dei termini una ricerca che va aldilà della parola pura e semplice, e cerca di evocare da essa tutti i significati possibili, e non parlo solo di significati letterari, no, parlo della sensazione particolare, forse personale che mi trasmette in certi momenti il lessico dialettale di Ciro: il senso, per esempio, del tempo quando evoca il passato, quando affabula nel racconto; il senso dello spazio quando l’oggetto del suo dire è, il mare, il cielo, una riva da percorrere lasciando la propria impronta; ma, ancora, i sapori, i rumori, le inquietudini dell’anima…Sembra insomma un dialetto così corposo, da poter essere masticato, assaporato; ti riempie la bocca, la scelta dei termini non è mai casuale, è sempre finalizzata ai contenuti, ma non c’è sforzo apparente in tutto ciò, le parole scorrono fluide, avvolgenti, intriganti. Il suo dialetto non è mai volgare ma non è mai nemmeno presuntuoso, eccessivamente letterario o, peggio, manieristico; sembra sempre la riproduzione fedele, direi sonora, della vicenda poetica che narra. Pochi autori, occorre dirlo, hanno il senso spiccato dell’onomatopeismo che ha De Novellis, e gia ne aveva data ampia dimostrazione nella bellissima raccolta “’E SUONNE MARIUOLE”, dove spesso hai la sensazione che ogni parola sia un suono, ogni rumore un fonema, ogni mestiere, ogni azione, un rosario di sonorità e di echi che raggiunge l’orecchio, il cuore, la mente.
Chiunque si perita di scrivere, di poesia, di letteratura e, perché no, anche di saggistica sa che la conquista più importante per arrivare a definirsi, è proprio quella di avere una personalità riconoscibile, uno stile, un tratto, grande o piccolo che sia, che dica a chi legge che ciò che sta leggendo è filtrato attraverso una sensibilità, e una sola, attraverso un’intelligenza, e una sola; è forse questa la magia per cui la Poesia, antica come il mondo, può riuscire ancora a dire cose nuove, a fare, forse degli uomini nuovi. L’ultima considerazione, a piè di queste brevi note, voglio dedicarla proprio allo stile di Ciro De Novellis per dire semplicemente una cosa: egli ne ha uno. Leggetelo, lo conoscerete, e poi, lo riconoscerete.
INO FRAGNA |