Questa lunga lettera del grande Max Wajro, sarebbe diventata la prefazione a LA VIA DEI CANAPI, se non fosse mancato al cuore di tutta Napoli. Un grande scrittore, saggista, e anche giornalista.
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Gli studi di Etnografia, di cui negli ultimi anni Roberto De Simone ravvivò con originalità gli aspetti di dedizione popolare, e che erano languenti dopo le presenze di indagatori come Raffaele Corso per citare un sol nome, ricevono ora un appassionato quanto serio contributo da questo libro di Ciro De Novellis, che ha svolto indagini di prima mano tra i miti del Contado napoletano, collegando gli archi degli acquedotti romani con le feste popolari degli “archetielli”, ritrovando nei testi classici le origini e le derivazioni, ricercando rarissime illustrazioni, offrendo una lettura utilissima agli Specialisti ma tanto gradevole per chiunque con un minimo di sensibilità voglia ritrovare nel passato i segni del presente, quelli che consolano la sbiadita vita dei nostri anni, quando si è appena concluso un secolo non nobile per dignità umana, anche se straordinario per le conquiste tecnologiche. L’Ottocento si chiudeva con l’ottimismo del ballo Excelsior: il Novecento gronda ancora sangue, che continua a scorrere in questi primi anni del nuovo Millennio.
Ecco che il ricorso al Mito diventa non solo oggetto interessante di studi, ma riserva di tenere tradizioni, suggestività di echi, tentativo di predisporsi ingenue difese contro l’avventarsi di eventi che tutto lascia credere non meno tremendi di quelli di ieri e di oggi.
Il Volume di Ciro De Novellis ricorda la famosa festa dell’archetiello, del lunedì in albis che movimentava la gente dei Casali a Nord di Napoli che vanno da Secondigliano a Miano, Mianella, fino all’antico Vomero, Antignano e alle pendici della piccola collina che separava e separa la conca di Fuorigrotta da quella dell’infrascata e del cavone: quel crinale che segnò il martirio del Patrono di Napoli, le cui tracce di martirio sono tuttora presenti nella pietra sanguigna di Pozzuoli alta e nelle ampolle tuttora ribollenti del Duomo partenopeo. Attingendo alla raccolta personale di documenti, autografi e stampe ed ai musei e agli archivi napoletani, De Novellis accompagna la sua avvincente narrazione con illustrazioni quasi tutte inedite, che sono spesso una emozionante sorpresa anche per il lettore colto, come il greto del cavone, il pastorello estatico dinanzi all’ingenua Madonna dipinta sul muro, i frontespizi figurati di rari libri, l’acquedotto dei Ponti Rossi in una stupenda fotografia di Sominer del 1865, i mausolei della conocchia di Capua e dello Scudillo, con la più modesta conocchietta di Quarto, le catacombe che la costruzione di via Pigna barbaramente tagliò, la pietra miliare di Soccavo, ora fortunatamente in salvo nel Museo Nazionale.
Di grande interesse, poi, le indagini etimologiche sui nomi di Miano, sulle consuetudini dei “figli di Maja” (dottamente illustrati da Aniello Gentile), Melito, e la fusione degli acquedotti romani non solo sul piano sociale ma su quello architettonico, che per 90 Km. spargeva acqua su tutto il territorio, creando la fama – ancora oggi viva – della bontà dei prodotti degli orti napoletani. De Novellis ricorda la macerazione della canapa, le tre Madonne, i canti popolari collegati ai riti sia pagani che religiosi e riporta alla luce quella dimenticata “Grotta di Maria Cristina” nel bosco di Campodimonte, dove la Pia Regina si recava di notte a pregare in quell’antro nella parte più profonda del bosco, preferendolo alla sfarzosa Cappella Reale del Palazzo. Una pietra incavata pare che servisse da inginocchiatoio alla Regina, ma ora i rovi rendono difficilissimo o impossibile l’acccesso a quel suggestivo luogo.
Nella mia vita di lettore e di recensore, poche volte mi sono trovato così a disagio come davanti a questa grande e nobilissima fatica del De Novellis, tanta è la massa di argomenti e connessioni, di riferimenti storici, mitologici, folkloristici, spesso piccole “scoperte” di interpretazione, in una atmosfera fantastica tra realtà e poesia, che porta all’attenzione dell’ambiente scientifico l’amorosa fatica che l’autore ha compiuto, lo sforzo di assimilazione e armonia di elementi di sparati e talvolta opposti, che arrecano un contributo destinato da oggi a pietra di fondamenta di quella generale revisione dell’etnografia della Campania, finora sparsa qua e là, a firma di Studiosi dignissimi, ma di cui è finora mancata l’opera di sintesi, solo un Ricercatore animato da tenerezza e passione, da scevro, da influssi degli autori paludati e accademici, ma con l’umiltà di chi ama la sua terra e compie sforzi per farla amare ai suoi abitatori, e se amare vuol dire anzitutto comprendere, l’Autore – portandoci per mano sulla Via dei canapi, attento a spiegarci origini e sviluppi (anche se talvolta opinabili o frutto di intuizioni geniali ma non sempre supportati dai testi, dei quali peraltro non c’è sempre il disperato bisogno che si crede) ci richiama non soltanto ad un dovere civile, quale è l’esser degni della nostra storia, ma ad un tesoro al quale soltanto, come dicevo all’inizio, si può ricorrere per trarne speranza per il secolo che comincia.
A nome di tanti, lodo (per quel che possa valere il mio compiacimento) l’amico caro che ha tolto tempo a sé, sacrificando le pause del suo lavoro professionale, per darci questa emozionante lettura: insegnandoci come con umiltà da vero studioso, si possa e si debba fare della Cultura un aiuto per vivere: il che poi è davvero il giusto fine della Cultura.
Max Vajro